Osservare un quadro o una scultura e mangiarsi una torta o una pizza non sono, tutto sommato, attività molto diverse. Ci sono due modi per farlo. Il primo: non pensare, assaporare forme e colori, sapori e profumi con la metà destra del cervello, quella che si occupa delle emozioni. Il secondo: servirsi della metà sinistra, quella razionale, per capire quali sono gli ingredienti, come e perchè sono stati combinati e trattati. Il modo giusto è il primo, ma anche il secondo può essere utile a patto che non sia fine a se stesso ma ci aiuti ad abbandonarci in modo più consapevole alle sensazioni che il succulento piatto che abbiamo dinanzi ci suggerisce.
Se poi ti pare irriverente paragonare un dipinto di Akira Zakamoto a una altrettanto variopinta pizza quattro stagioni, ricorda che l'arte del Novecento ha avuto sovente fra le sue principali caratteristiche l'irriverenza: perciò parlare in modo irriverente di un artista che vive a cavallo fra ventesimo e ventunesimo secolo mi pare perfettamente lecito. Scopriamo dunque, uno per uno, gli ingredienti. Primo: il formato. Benchà© Zakamoto non sdegni tele rettangolari, con notevole frequenza egli usa tele quadrate. Nella mostra Isole / Le roccaforti del sogno (Rivoli 2003) campeggiava un'installazione (così la definiva lui, anche se oggi il termine fa pensare a tutt'altro) costituita da ventiquattro tele 50 per 50 dal titolo Il futuro ritorna, cui facevano riscontro rare tele rettangolari. Nella storia della pittura il supporto quadrato non è la regola, ma ci sono stati negli ultimi cent'anni artisti che lo hanno preferito. Kazimir Malevic, il profeta del Suprematismo russo, considerava il quadrato nero "lo zero delle forme" e gli attribuiva tale importanza che quando morì gli venne posto appunto un quadrato nero a capo del letto e un altro venne dipinto sulla sua tomba. Se dagli anni Dieci passiamo agli anni Sessanta del secolo scorso, di Joseph Albers sono famosi gli Omaggi al quadrato; Robert Ryman, caposcuola della Pittura Opaca, ha dipinto solo quadrati bianchi; e anche Ad Reinhardt e Frank Stella hanno mostrato una spiccata predilezione per la medesima forma. Tuttavia la loro pittura non era figurativa.
Per chi invece vuol fissare sulla tela una scena o un ritratto il formato rettangolare è quasi di rigore, sulla scia dell'abitudine che ci ha dato la macchina fotografica: tramontate le fortune delle pellicole 6 x 6, per decenni il formato 24 x 36 ha spadroneggiato, cosicchà© quando ti prepari a scattare una foto la prima cosa che pensi è: l'inquadratura migliore sarà verticale o orizzontale? Passando alle fotocamere digitali non c'era, in assenza di pellicola, un reale motivo per continuare con rettangoli, ma tale era l'abitudine che si è scelto di farlo – anche perchà© il monitor del computer, la televisione e il proiettore non si sognano affatto di darti immagini quadrate.
Zakamoto dunque va controccorrente. C'è da aggiungere che il quadrato è una figura geometrica carica di significati simbolici: mentre il cerchio rappresenta il cielo, il quadrato è la terra. Ma il discorso ci porterebbe troppo in là . Secondo: i colori. Il pittore giapponese, o pseudo tale, non li mescola. Niente sfumature. Quello che è rosso è rosso, quello che è verde è verde. E siccome usa smalti, che ti danno una superficie uniforme anzichà© tutta alti e bassi come fanno i colori a olio, l'effetto è potenziato. Sembra dire, con gioia infantile: il colore è bello, godiamocelo così com'è; perchà© pasticciarlo, rovinarlo? Però attenzione. Il pittore dipinge forme chiaramente riconoscibili; ma i colori non necessariamente sono quelli che la natura e il senso comune suggeriscono. Un cielo può anche essere blu, ma non è affatto detto che lo sia; se poi è rosso, non vuol dire che quella sia un'aurora o un tramonto. L'unica preoccupazione è che gli accostamenti di questi colori puri funzionino: che esprimano ciò che egli ha in mente di esprimere. Il resto non conta: Zakamoto è altrettanto lontano dall'uso obbligato di colori naturali quanto dalla ricerca artificiosa di colori innaturali al solo scopo di stupire.
Non credo che egli sia convinto, come Kandinskij, che il giallo sembri espandersi e avvicinarsi, che il blu si contragga e si allontani, che il viola sia malato e l'arancione sano; ma è indubbio che egli scelga i colori in base a una sua logica interna e personale, che si sia creato una gerarchia di valori e di significati (magari assai diversi da quelli del maestro russo) alla quale si attiene rigorosamente. La scelta dei colori è collegata, insieme a molto altro, al terzo punto: il sapiente uso del computer. Qualcuno si vergognerebbe di ammettere che si serve del computer per metter giù il bozzetto di un quadro; lui no. Del resto oggi gli architetti non disegnano al computer tutto ciò che fino a poco fa disegnavano a mano? Scrive Zakamoto: "utilizzo immagini fotografiche fatte con una camera digitale, quindi produco uno schizzo grossolano a mano, con il computer stilizzo le forme e scelgo i colori." Dal computer inoltre arrivano pianeti (compresi la Terra e Saturno), stelline e altri segni grafici. Ma punterei il dito sulla frase "con il computer stilizzo le forme". Ecco un modo come molti altri per ricercare in una figura l'essenziale: non solo un atteggiamento diventa immediatamente riconoscibile, ma anche un'emozione ci viene trasmessa con chiarezza e senza possibilità di equivoci. Diamine, emozioni da un computer? Ebbene sì: nel XXI secolo non possiamo permetterci di vedervi nulla di strano o scoveniente. Il metodo funziona. Va inoltre notato che la scomposizione di mani e volti (o parti di volti) in aree nette di colori diversi effettuata dal computer oltre a metterne in evidenza, come si è detto, le caratteristiche essenziali ha l'effetto in certo modo di appiattirli. Se la pittura è stata per secoli, e per qualcuno è ancora, il fingere le tre dimensioni su un supporto che ne possiede solo due, nelle figure umane di Akira la terza dimensione finisce per risultare simbolica, non effettivamente rappresentata in un tentativo di trompe l'oeil come hanno fatto per millenni i pittori, prima quelli di Roma antica e poi quelli europei da Giotto in poi.
Se anzichà© quadri che raffigurano un volto le tele di Zakamoto fossero carte geografiche che riproducono un territorio montuoso, non sarebbero di quelle che disegnano al tratteggio le vette, le creste e le valli, ma di quelle che si affidano alle curve di livello: chi utilizza la carta ben conosce il significato delle isoipse e osservandole vede ogni caratteristica del rilievo, ma per farlo ha messo in moto – probabilmente senza rendersene conto – quella parte di cervello che è deputata all'intelligenza dei simboli e non alla decifrazione delle immagini. E stiamo arrivando al quarto ingrediente della nostra pizza: la composizione. Con queste figure umane o loro parti in primo piano fanno singolare contrasto i fasci di luce che giungono dall'alto, da astronavi o isole galleggianti nell'etere. Tutti noi abbiamo presenti fotografie in cui il primo piano è a fuoco, e perciò finge efficacemente la terza dimensione, e lo sfondo è volutamente sfocato e perciò piatto: chiunque di noi ha sicuramente usato più di una volta questa tecnica nei ritratti.
Ma nelle tele di Zakamoto è il primo piano a risultare piatto per quanto si è appena detto, mentre i fasci di luce (che ricordano quelli di un proiettore da teatro, e perciò suggeriscono all'inconscio dell'osservatore che quella è una scena, che lì sta per accadere qualcosa) conferiscono allo sfondo una tridimensionalità perfetta, degna dei pittori rinascimentali e dei loro pavimenti a tarsie marmoree che, convergendo verso il trono su cui sedeva l'immancabile Madonna con Bambino, avevano uno scopo non molto diverso. E siccome non siamo abituati a una figura piatta che campeggi davanti a uno sfondo tridimensionale, l'effetto che ne risulta è di straniamento e di leggera inquietudine. Si potrebbe dire che il vero soggetto del quadro non è il bimbo o la donna in primo piano, è il fascio di luce cosmica che gli sta dietro. Alla prospettiva suggerita dai proiettori appesi ad astronavi ed isole spaziali si affiancano le originali prospettive dall'alto in basso (il volto di un bimbo come è visto da un adulto) e dal basso in alto (il volto dell'adulto visto dal bimbo). Strano a dirsi, la soluzione, che può parere ovvia, è tutt'altro che comune: a quali altri pittori che abbiano raffigurato bambini (ce ne sono state legioni, e Zakamoto va inserito a buon diritto nel numero data la frequenza del soggetto nei suoi quadri) è venuta l'idea di osservarli in tal modo? Mutatis mutandis, viene in mente il Cristo morto del Mantegna, l'esempio più strepitoso dell'applicazione di una prospettiva insolita. A questo punto siamo passati al quinto ingrediente: chiamatelo come volete, surrealismo, pittura metafisica. Già il sentimento di attesa, di qualcosa (ma che cosa?) che sicuramente capiterà di qui a poco, non è una novità : è stato notato a proposito delle Piazze d'Italia di De Chirico. Ma qua e là Zakamoto va ben oltre.
Prendiamo un quadro come La fine di un'era: l'impressionante Terra con i continenti bianchi e gli oceani rossi è per un terzo immersa in qualcosa di blu… sì ma, diamine, in che cosa? Il cielo può essere anche blu, ma un pianeta non può galleggiarvi come nel mare, applicando il principio di Archimede! E allora questa Terra rossa di sangue che sta per andare a fondo in un impossibile mare cosmico è parente assai stretta del Nuotatore solitario – per restare a De Chirico – che a grandi bracciate attraversa la propria stanza districandosi fra i mobili. Con un salto d'epoca e di qualità non da poco, dobbiamo però constatare che accanto alle lezioni di grandi maestri della pittura il nostro artista ha tenuto presenti (fino a che punto consciamente?) i suggerimenti che gli offrivano i cartoni animati, in particolare quelli giapponesi che furoreggiavano alla TV quando egli era fanciullo. Molte scene delle sue tele sembrano fotogrammi di un cartone animato: il volto del bimbo in primo piano con occhi e bocca in forte evidenza, le stelline, le astronavi… Anche qui, niente di scandaloso e neppure di nuovo: Andy Warhol e Roy Lichtenstein, i due massimi rappresentanti della Pop art, hanno iniziato la loro carriera ispirandosi ai fumetti, dei quali del resto è tipica la suddivisione dell'immagine in aree nette di colore, senza sfumature o sovrapposizioni.
Ma i fumetti, i cartoons, i cartoni animati son concepiti – lo dice il nome – per essere disegnati su carta. E qui entra in gioco il sesto punto: il supporto. La tela è da secoli il più ovvio e banale dei supporti, a nessuno viene in mente di notarne la presenza se non quando Lucio Fontana l'ha bucata o squarciata alla ricerca della terza dimensione; ma qui uno si accorge con stupore che sotto i lucidi smalti con cui Zakamoto ha delineato le sue figure c'è, appunto, una tela. Sembrerebbero forme e scene non da tela; perciò la presenza del più classico dei supporti ha un impatto tutt'altro che trascurabile. Ci dice: va bene, astronavi, stelline, bimbi dagli occhi sgranati, pianeti che affogano… ma attenzione, tutto questo non è un cartone animato nà© una pagina di Tex o Topolino, è un quadro con tutti i crismi e come tale lo dovete osservare. L'emozione che può trasmettervi un quadro non è l'emozione che vi dà un fumetto, con tutto il rispetto per quest'ultimo: siamo su piani diversi. Se ci riallacciamo a quanto Zakamoto dichiara circa il suo metodo di elaborare dapprima le immagini al computer, questo passare, come atto finale, alla tela dando loro la dignità di quadri è in certo modo il contrario del procedimento che seguivano – in un'epoca in cui nessuno aveva a casa propria un PC – gli adepti della Pop art: soprattutto all'inizio essi operavano a mano libera, o con tecniche semiartigianali, cercando di simulare i risultati che davano le lavorazioni industriali usate nel mondo della pubblicità . Tipico il caso di Lichtenstein, che dipingeva con uno spazzolino attraverso una lamiera forata per fingere la sgranatura che dà la stampa di una foto alle grandi dimensioni di un manifesto pubblicitario. E Warhol diceva: "voglio essere una macchina, e sento che quando faccio una cosa… alla maniera di una macchina ottengo il risultato che voglio." L'opposto di Akira, che maneggia da maestro una macchina sofisticata come i computer del terzo millennio ma… vuol essere un pittore. Settimo punto.
Alle spalle di tutti gli espedienti pratici fin qui elencati esistono delle convinzioni teoriche. Una fra le principali è: siamo tutti dei. (Tra parentesi, nel Vangelo di Giovanni Gesù, per tappar la bocca a chi lo accusa di farsi figlio di Dio, cita un passo dell'Antico Testamento che suona: Io ho detto: voi siete dèi, spiazzando gli interlocutori.) Di qui l'idea di una performance in occasione della quale "i visitatori si riapproprino della loro deità ": Zakamoto li intervista, li fotografa, elabora al computer l'immagine inserendovi elementi tratti da Internet e trasforma il tutto in una cartolina con la scritta "IO SONO DIO", da immettere nella rete nel sito dell'artista.
Tale sito finirà dunque per diventare qualcosa di simile alla sala personale di Franco Vaccari alla Biennale veneziana del 1972: i visitatori si autofotagrafavano con una Polaroid e appendevano al muro la loro immagine, cosicchà© a fine mostra ce n'erano migliaia. Simile, ma molto più raffinato sia dal punto di vista grafico (niente elaborazioni al computer per Vaccari) sia da quello concettuale (là i visitatori erano semplicemente invitati a lasciar traccia del proprio passaggio, non erano promossi a dèi). Ottavo e ultimo punto. Luca Motolese non si è accontentato di cambiar nome e cognome: di pittori che hanno scelto pseudonimi la storia dell'arte è piena e alcuni sono grossi nomi – pensiamo ad Alberto Savinio. No, lui si è pure scritto un'autobiografia giapponese un tantino demenziale, comprendente anche un rapimento da parte degli alieni (perchà© altrimenti come mai ci sarebbero tante astronavi e isole siderali nei suoi quadri?).
Il lettore un po' sorride divertito di questa ironica presa in giro e un po' è tentato di credere che sotto sotto ci sia qualcosa di serio: l'allegoria di un improvviso e profondo cambiamento nel modo di percepire la realtà da parte dell'artista, dovuto magari a qualche evento non meno traumatico di un rapimento nello spazio. Resta il fatto che la cornice giapponese – alla quale non sono forse estranei i citati cartoni animati – ha un suo fascino; e dall'Italia al Sol Levante nel cognome che muta – da Motolese a Zakamoto – rimangono fortunatamente invariate le sillabe MOTO, perchà© era evidentemente scritto nelle stelle che il nostro sarebbe diventato un motociclista… Ho iniziato con un'irriverenza e termino con un'altra: a me lo pseudonimo ricorda irresistibilmente Tofusho Lamoto, il ridicolo campione motociclistico giapponese che quando ero giovane campeggiava nella pubblicità del callifugo del Dottor Ciccarelli. Come abbiamo visto, quello che pareva un piatto tutto sommato semplice (una pizza Margherita?) ci ha invece rivelato un numero di ingredienti che non sospettavamo. Essi sono stati scelti e mescolati con sapienza.
E sicuramente gli otto che ho elencato non sono tutti: al lettore il compito di identificare gli altri. Essi hanno illustri precedenti nella storia dell'arte del Ventesimo Secolo e in qualche caso dei secoli precedenti. Questo non vuol dire che Akira abbia pedestremente copiato idee o tecniche altrui: vuol dire che non è un velleitario improvvisatore, che ha solide basi. Naturalmente non basta che vi siano numerosi buoni ingredienti perchà© un piatto risulti sopraffino; se però gli ingredienti sono pochi e cattivi, non potremo aspettarci gran che… E allora, sono belli o sono brutti i quadri di Zakamoto? Se è vero quello che sostiene Walter Gropius, ossia che la bellezza dipende "dalla sicura padronanza di tutti i requisiti scientifici, tecnici e formali che costituiscono un organismo", dovrebbero essere belli. Ma la domanda è futile. Tristan Tzara, il profeta del Dadaismo, scriveva che "un'opera d'arte non è mai bella per decreto legge, obiettivamente, all'unanimità ". Dunque decidi tu, lettore, se le tele quadrate del nostro pseudo-giapponese ti vanno a genio.
A me piacciono. A mia madre – che è moglie di un pittore – anche. Ma a questo punto se hai avuto la pazienza di seguirmi fin qui capirai che è tempo di smetterla con le parole e di sedersi a tavola. "Per guardare un quadro ci vuole una sedia", sosteneva Paul Klee, ma non consigliava di prendere anche coltello, forchetta e tovagliolo. Qui, invece, la pizza è servita: buon appetito!
Carlo Gavazzi